Posted: 06 Jul 2013 01:17 PM PDT
Ieri, mentre veniva presentata al
mondo la nuova enciclica “Lumen fidei”, scritta a quattro mani da Benedetto
XVI e da papa Francesco, i due uomini di Dio insieme hanno anche inaugurato,
nei giardini vaticani, una statua di san Michele Arcangelo, consacrando la
città vaticana a lui e a san Giuseppe.
Da tali fatti emerge non solo
l’affetto fraterno che unisce Francesco e il predecessore, ma soprattutto la
loro comunione di fede profonda. Questa unità, in un mondo segnato dal
conflitto, è il miracolo della grazia, l’essenza del cristianesimo.
E va sottolineato anche perché i
giornali tendono a parlare della Chiesa secondo i criteri di giudizio
mondani. Senza vederne il miracolo.
Non a caso, proprio ieri
mattina, su “Repubblica”, un articoletto pretendeva di proclamare invece la
radicale “discontinuità” fra Benedetto XVI e papa Francesco. Un’idea
clamorosamente smentita dagli stessi eventi del giorno.
Del resto sempre ieri il papa ha
pure firmato i decreti di canonizzazione di altri due papi, Giovanni XXIII e
Giovanni Paolo II. E ha voluto datare la sua enciclica così: “29 giugno,
solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo”.
Dunque, con una straordinaria
serie di gesti, in una stessa giornata, ha potentemente sottolineato la
continuità e la grandezza del papato da san Pietro ai giorni nostri.
E ha offerto a noi l’occasione di
abbracciare, con un solo sguardo, la “creatività” di Dio nel nostro tempo.
Egli infatti ha parlato al mondo
di oggi attraverso la testimonianza potente e affascinante di papa Wojtyla,
profeta di fede e di libertà; poi attraverso la sapienza profonda e l’umiltà
di Benedetto XVI, che ha fatto brillare la ragionevolezza della fede davanti
allo smarrimento dei moderni; infine alla nostra generazione Dio parla
attraverso la paternità tenera e accorata di papa Francesco, grande abbraccio
di misericordia su tutte le miserie e le ferite umane (la visita del Papa a
Lampedusa, fra i disperati della terra – lunedì prossimo – ce lo mostra in
modo commovente).
L’enciclica “Lumen fidei”, dicevo,
è profondamente segnata da questa continuità del giudizio della Chiesa sul
mondo moderno e dalla variegata ricchezza della sua testimonianza.
Costituisce del resto un evento
memorabile: non è cosa di tutti i giorni che un’enciclica sia scritta a
quattro mani, concordemente, da due papi.
Ma, portando la firma dell’unico
pontefice in carica che umilmente riconosce nel corpo stesso dell’enciclica
la paternità del predecessore per buona parte del documento (“nella
fraternità di Cristo, assumo il suo prezioso lavoro, aggiungendo al testo
alcuni ulteriori contributi”), con buona pace di “Repubblica”, mostra senza
alcun dubbio possibile, che papa Francesco abbraccia e fa suo il magistero
del predecessore.
Ovviamente lo fa donando alla vita
della Chiesa di questi giorni e al mondo in rapida mutazione, ulteriori
spunti di riflessione che tutti – quelli antichi di Benedetto e quelli nuovi
– convergono sul volto di Gesù Cristo e la fede in Lui.
Alcuni rapidi flash. La fede è
luce, mentre il mondo sprofonda sempre più nelle tenebre. E’ un giudizio sul
momento presente. Il Papa contesta apertamente l’idea che lo spazio della
fede si apra “lì dove la ragione non può illuminare”.
No. I secoli moderni – dai
totalitarismi del Novecento alla confusione del presente – hanno dimostrato
che le pretese assolute della ragione producono infelicità.
E la luce della fede non è un
sentimento soggettivo, ma verità oggettiva: “quando la sua fiamma si spegne
anche tutte le altre luci finiscono per perdere il loro vigore”. Essa dunque
sa “illuminare tutta l’esistenza dell’uomo”.
E’ la prima contestazione della
“dittatura del relativismo”.
Un secondo flash. Cosa è la fede?
Una credenza? Una dottrina? Una morale? No. Sta tutta in questa frase:
“riconosciamo che un grande Amore ci è stato offerto”.
Per questo l’enciclica usa
l’espressione giussaniana “incontro che accade nella storia” e sottolinea che
il Salvatore ci ha raggiunto attraverso una “catena umana” che ha attraversato
i millenni, cioè la Chiesa, la tradizione.
Un altro prezioso spunto. Nella
mentalità dominante si oppone di solito alla fede l’agnosticismo o l’ateismo.
Invece la “Lumen fidei”, in base alla lezione biblica, oppone alla fede
“l’idolatria”.
In effetti l’ateismo non esiste.
Nessun uomo può vivere, anche un solo istante, senza affermare qualcosa o
qualcuno. E’ ciò che la Sacra Scrittura chiama “idolo”.
Dunque l’unica grande opzione
della vita sta in questo: fidarsi di Gesù Cristo o di qualche idolo. Non è possibile
per nessuno sottrarsi a questa scelta. Chi è più affidabile? Chi merita
veramente fiducia? Gesù di Nazaret, colui che è morto per me e per te, o un
qualunque idolo?
Questa enciclica ci libera da
tanti luoghi comuni. Per esempio la cultura dominante pensa Dio come qualcuno
che “si trovi solo al di là”, quindi “incapace di agire nel mondo”, perciò
“il suo amore non sarebbe veramente potente, capace di compiere la felicità
che promette”. Così “credere o non credere in Lui sarebbe del tutto indifferente”.
Invece è vero il contrario. E sono
i fatti – i concretissimi fatti – a gridarlo. E’ tutta una storia ricchissima
di fatti a provarlo.
Del resto “quando l’uomo pensa che
allontanandosi da Dio troverà se stesso, la sua esistenza fallisce”.
Ma come inizia la fede?
Incontrando Gesù, oggi come duemila anni fa. In un incontro con i cristiani
che sono una cosa sola con Lui. Chi non vorrebbe vedere gli occhi di Gesù?
Ebbene, citando Guardini,
l’enciclica spiega che la Chiesa è la portatrice storica dello sguardo di
Cristo sul mondo. In essa si sperimenta una vita comune. Così noi scopriamo
che non siamo più soli.
Si aderisce a quello sguardo, fino
a farlo nostro, dando credito a alla compagnia di Gesù e cominciando a
seguirlo concretamente: “se non crederete non comprenderete”. Perciò “la fede
non è un fatto privato, una concezione individualistica, un’opinione
soggettiva”.
Questa è la profonda
ragionevolezza della fede. Chi ritiene invece che essa sia “una bella fiaba”
o “un bel sentimento”, indichi qualcuno che sia più credibile di Cristo da
seguire.
La prova sperimentale – dice
l’enciclica – mostra a ciascuno che l’amicizia di Cristo illumina la vita
come nessuna cosa al mondo e apre il cuore umano all’amore che tutti
desideriamo.
Per questo possiamo riconoscere
che Egli è la verità: “richiamare la connessione della fede con la verità”
dice l’enciclica “è oggi più che mai necessario proprio per la crisi di
verità in cui viviamo” perché “nella cultura contemporanea si tende spesso ad
accettare come verità solo quella della tecnologia” o “della scienza”.
Il cristiano non pretende con
arroganza di essere il padrone della verità. Anzi “la verità lo fa umile”
perché non è lui a esserne padrone, ma è la verità a possederlo. Infatti è
compagno di cammino di tutti.
L’enciclica ha molti spunti
antirelativisti. Per esempio sulla teologia (che è “al servizio della fede
dei cristiani” e alla sequela del magistero). Sulla fede “fai-da-te” (la fede
è una, non si può prendere una cosa e rifiutarne un’altra). Sulla rilevanza
pubblica della fede cristiana. Sulla “fraternità” che non è possibile senza
riconoscere un Padre di tutti.
La fede proclama il primato
dell’uomo nell’universo e al tempo stesso “ci fa rispettare maggiormente la
natura”. Con buona pace di “Repubblica” esalta il matrimonio come “unione
stabile dell’uomo e della donna… capaci di generare una nuova vita”,
riconoscendo “la bontà della differenza sessuale”.
E fa abbracciare tutte le
sofferenze del mondo: “all’uomo che soffre Dio non dona un ragionamento che
spieghi tutto”, ma offre la sua presenza che accompagna e che si carica di
tutti i dolori umani.
La fede cristiana annuncia la
“città di Dio” che ci è preparata per sempre. E si affida a colei che è “la
Madre della nostra fede”.
Decisamente queste pagine sono una
grande luce nelle tenebre del presente.
Antonio Socci
6 luglio 2013
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